Dall’Artusi a Masterchef

Che Carlo Cracco sia una gallina dalle uova d’oro, pubblicitari e produttori televisivi l’hanno già capito da un pezzo, ma forse nessuno pensava che un solo piatto di quelle uova potesse valere 1500€. Per questo ha fatto notizia, non più di un mese fa, la serata di Capodanno organizzata in collaborazione con il giudice di Masterchef dalla società “Tentazioni Venezia”, che, tra un giretto in motoscafo e uno spettacolo di luci e danze, ha permesso a 60 fortunati di godersi sette portate più una, la gloria di trovarsi al già leggendario “Capodanno di Cracco”; il tutto al modico prezzo di un normale stipendio mensile. Peccato che lo chef non fosse presente, né in cucina né in sala, e che il suo contributo si limitasse ad un piatto di nuova invenzione ispirato alle sue famose uova marinate. Questa storia ai miei nonni è sembrata davvero esilerante, il che è comprensibile, se si considera che per la maggior parte dei tempi che hanno visto non c’era motivo di associare la cucina ad un volto, eccetto forse quello della propria madre. Del resto, se oggi tutto, da un taglio di capelli a una composizione floreale, è arte o design, i bisogni primari dell’essere umano non potevano certo restare indietro! Ma se questa moderna Ἀποκολοκύντωσις è relativamente recente, per indagare le radici del cibo come status symbol bisogna fare un passo indietro almeno di un secolo.

Cosa stava succedendo a quest’ora nel 1917? Sostanzialmente, due cose di cui ci interessa parlare. Innanzitutto era da poco morto Pellegrino Artusi, l’autore de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Questo volume era molto più di un semplice ricettario, si proponeva infatti di studiare a fondo il gusto, istruire cuoche e cuochi sulla lingua italiana e salvare dall’oblio le varie tradizioni regionali: oggi rappresenta la testimonianza di un universo culturale estremamente interessato all’alimentazione, e non solo per ragioni patriottiche. Il secondo fattore che dovremmo considerare è che a quel tempo l’Italia stava affrontando la prima guerra mondiale, gli uomini erano andati in massa al fronte e gli alimenti che arrivavano nelle case (soprattutto di città) erano scarsi, sia per la limitata disponibilità economica delle famiglie sia per le difficoltà del mercato. Poco più di vent’anni dopo, un secondo conflitto mondiale rigettava il Belpaese nella stessa situazione, senza neanche avergli dato il tempo di rimettersi in piedi: i ricordi culinari di quel periodo per i miei nonni sono soprattutto polente, poca carne e alimenti sempre stracotti; le materie prime erano i prodotti dell’orto, se si era abbastanza fortunati da averne uno, e il poco che si poteva comprare con le tessere annonarie o dai misteriosi furgoncini che arrivavano di tanto in tanto nei paesini di montagna. Ma il vero effetto della guerra sull’alimentazione si è visto forse in un secondo momento, quando, tornate pace e stabilità, c’è stato un periodo quasi di ostentazione del ritrovato benessere, anche in cucina: questo significa carne tutti i giorni, ma anche porzioni esagerate frutto della convinzione che “più si mangia, meglio è”.

Gli anni ’60 hanno portato con sé la più grande rivoluzione alimentare dalla scoperta dell’America: il trionfo delle grandi aziende internazionali, che hanno messo una prima pietra a quella che oggi chiamiamo globalizzazione. Ancora una volta, il cibo tornava ad avere un valore sociale, soprattutto con la nascita e la diffusione di un prodotto destinato ad un successo assicurato: l’omogeneizzato, forse iniziatore della lenta e progressiva ascesa del salutismo. Il dibattito sui possibili effetti nocivi del cibo iniziava a farsi strada, mentre le donne erano circondate da modelli di brave curatici di figli e mariti: le banche regalavano ai propri clienti agende dove le mogli potessero annotare cose relative alla gestione della casa o trovare ispirazione in ricette e guide all’uso degli elettrodomestici. Per la prima volta, la ricerca di piatti equilibrati e più o meno salutari arrivava anche nelle case, senza l’intervento della tradizione.