Ti sei mai chiesto se saresti in grado di rinunciare a quella fetta di ananas ricoperta di cioccolato a cui non hai saputo resistere durante le feste? Pensaci un momento.
Quell’ananas proviene molto probabilmente dal Costa Rica, cioè dall’altra parte del globo e ha percorso, non con le sue gambine, un lungo percorso incidendo in modo rilevante alla produzione di CO2 e quindi all’inquinamento del pianeta e al suo surriscaldamento. Inoltre la produzione del tuo pezzettino di ananas è affidata a multinazionali che si prefiggono il massimo del profitto, attraverso non solo lo sfruttamento del contadino, ma anche attraverso la maturazione forzata del frutto e il suo miglioramento estetico. Se il primo elemento non vi turba moralmente, pensate che il secondo ha impatti seri sulla vostra salute, impoverendo ciò che mangiate delle sue virtù nutritive e spesso avvelenando il cibo per renderlo bello. Certo un pensierino va anche al cioccolato, ambito cibo da re e poi da giovin signori europei: oggi invece alla portata di tutti, anche quello fatto di vero cacao. Anche se acquistate il cioccolato equo e solidale non crediate che provenga dalla cascina dietro l’angolo.
Torniamo al nostro problema: cibo a Km zero vuol dire quindi cibo venduto nella stessa zona in cui è stato prodotto, viene prediletto l’alimento locale, di cui è garantita la genuinità, in opposizione all’origine non sempre certificata dell’alimento globale. Il commercio globale inquina e non garantisce, come invece il cibo a km0, l’assenza di organismi geneticamente modificati.
Fino all’epoca della globalizzazione (ma anche della fine del protezionismo…) la maggior parte della popolazione non si poneva il problema del cibo a km zero. Quello che finiva nel piatto proveniva dall’orto dalle regioni vicine e solo per i benestanti poteva esserci cibo proveniente magari dalle terre colonizzate.
Per tutto il periodo del fascismo l’Italia (quella povera) mangiava quello che si produceva o si poteva comprare nel nostro Paese: l’autarchia era un valore ideologico, che spesso si traduceva in povertà di consumi. Paradossalmente oggi è più comodo e più conveniente, in termini di tempo e a volte anche di denaro, non acquistare cibi a km zero da piccoli produttori, ma affidarsi alla grande distribuzione
Il lavoratore medio che abita in una grande città o nei suoi sobborghi quando torna a casa non ha certo nè il tempo nè la voglia di andare alla cascina per comprarsi l’insalata e la carne. Finisce col concentrare la spesa nel fine settimana, acquistando i prodotti negli ipermercati e lasciandosi guidare dalle offerte. Comprare a km0 vuol dire consapevolezza, vuol dire saper riconoscere ciò che ha davvero il marchio del km0, vuol dire capire che certi cibi possono essere nocivi per la salute del singolo e per l’ambiente, che poi vuol dire ancora per la salute, vuol dire essere consapevoli dello sfruttamento e dell’impoverimento di chi effettivamente lavora e produce: ma questa consapevolezza non è certo alla portata di tutti, in un mondo in cui la rivoluzione tecnologica non ha donato all’uomo più otium, più tempo libero, ma anzi lo ha reso più schiavo, lo ha alienato da se stesso. La commessa del supermercato che lavora anche la domenica può forse permettersi la gita fuori porta per andare a comprare la cicoria a km zero, quando lo stesso prodotto le viene venduto in sconto nel suo posto di lavoro? E, costretta a lasciare la sua bimba quando va bene col padre o con la nonna, non la gratificherà con una bevanda multivitaminica con tanto di sorpresina? Del resto anche la pubblicità le suggerisce che così è una brava mamma e i suoi sensi di colpa sono messi a tacere, insieme a qualsiasi dubbio sulla salubrità del prodotto.
Ma oggi sta avvenendo una piccola rivoluzione: sempre più persone sono consapevoli dell’importanza di consumare cibi a kmO. Importanza per sè, per l’ambiente, per i lavoratori della terra. Da questa consapevolezza, che deve affrontare i giganti della grande distribuzione e della pubblicità, quelli che ci presentano il buon cibo come una volta mentre in realtà e cibo industriale che nasce dallo sfruttamento, nascono piccole realtà di consumatori che si accordano per acquisti locali, in gruppo, favorendo la produzione locale, a volte anche biologica, abbassandone anche i prezzi.
Ci guadagnano in salute, a volte in denaro. Ci guadagna l’ambiente. E non ultimo ci guadagna la socialità: stare insieme, decidere, acquistare in modo consapevole e solidale. Non sentirsi più alienati in una catena di produzione-consumo, tornare ad essere padroni del proprio corpo e del proprio tempo.
A km zero.